Dove Viaggi: Pasta diva
31 Gennaio 2014
Dove Viaggi: Pasta diva

[google-translator]
Non c’è niente di male a utilizzare il grano dell’Ucraina o del Canada, purché sia grano duro, come del resto impone la legge. Non c’è niente di male a usare trafile di teflon, anziché in bronzo o addirittura in oro, come fanno al pastificio Verrigni, per la produzione, basta sapere che la pasta risulterà vetrosa anziché scabra, rugosa, e raccoglierà il sugo meno bene. Niente di male anche nell’asciugare la pasta ad alte temperature e in fretta, salvo che amido e glutine rischiano di non distribuirsi perfettamente al centro e periferia delle paste, e la cottura in casa ne risente, col rischio di collosità all’esterno e durezza all’interno. Insomma, non è sbagliato acquistare la pasta nei supermercati, ma chi ha a cuore la tradizione si rivolge ai pastifici artigianali. Perché usano materie prime ultra selezionate, metodi antichi, tempi non compressi, strumenti tradizionali e una perizia, che nell’industria delle tonnellate di pasta al giorno, non sono di fatto praticabili. Ecco allora i segreti che dieci pastifici al top della qualità in Italia (quindi nel mondo) hanno rivelato agli inviati di Dove. E una selezione di negozi, ristoranti, trattorie dove acquistare o farsi servire la pasta migliore, cucinata in maniera tradizionale o creativa, ma sempre sorprendente. Dal Sud al Centro-Nord. L’oro bianco del Meridione è da almeno 400 anni la pasta di Gragnano (32 chilometri da Napoli), grazie a particolari condizioni climatiche, come l’umidità leggera, che favorisce la lenta essiccazione di quelli che un tempo venivano chiamati solo maccaroni. Il Consorzio Gragnano Città della Pasta ne promuove il marchio collettivo, tutelando tipicità e qualità di un prodotto riconosciuto nel luglio scorso con la denominazione Igp Pasta di Gragnano.
Un’altra piccola grande prova della sua eccellenza è il piatto che Nino Di Costanzo, del ristorante Il Mosaico di Ischia (2 stelle Michelin), ha dedicato, per così dire, alla produzione collettiva. Si chiama: Le paste… le patate, omaggio ai pastai gragnanesi. “Mi sono ispirato alla ricetta di pasta e patate che mia nonna ha tramandato a mia mamma e lei a me”, racconta lo chef. Il piatto è composto da 22 tipi di pasta di Gragnano di vari produttori, da patate ratte, gialle, rosse e viola, Provola e pancetta e, “per renderlo più importante”, da seppie alla brace e mazzancolle arrostite. Sono 12 le aziende consorziate, tra ditte storiche e nuove realtà, come il Pastificio dei Campi, nato poco più di un anno fa da una costola dell’azienda Di Martino, come progetto moderno dei fratelli Giuseppe e Giovanna Di Martino, che in poco tempo ha già ottenuto numerosi premi internazionali. La calle, perfetta con sughi di pesce, è l’ultima creazione di una piccola produzione artigianale, di 15 quintali al giorno, per 67 formati di pasta, venduti solo nei negozi di specialità alimentari. Viene scelto solo grano italiano, coltivato in Puglia, Molise e Basilicata, macinato in maniera delicata, per mantenerne tutta la fragranza. Le trafile sono in bronzo, secondo la tradizione di Gragnano, perché così rendono la pasta ruvida al punto giusto e il condimento si amalgama meglio.
Ma prima di mettersi a tavola, è possibile con il Total Tracking System, collegandosi al sito www.pastificiodeicampi.it, scoprire ogni segreto del pacco acquistato, attraverso tutti i passaggi dal campo di grano al mulino, al pastaio che ha lavorato il formato. Stessa filosofia, ma diverso approccio, al pastificio Gentile, ricco di storia, essendo nato nel 1876. Qui la qualità esclusiva si riscontra in più aspetti, come nella produzione dei fusilli fatti a mano, il must della ditta, e nel metodo
detto Cirillo, di essiccazione lenta attraverso un procedimento ideato a inizi Novecento, che garantisce insuperabile tenacità, profumo e sapore. Natale, Alberto e Pasquale Zampino curano l’azienda di famiglia, che produce 40 formati tradizionali, come gli ziti, le eliche, i conchiglioni, i rigatoni, le mafalde e i vermicelli lunghi da spezzare a mano, scelti da ristoranti stellati come l’Enoteca Pinchiorri di Firenze e Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi. Da Gentile utilizzano solo grano
del tipo Saragolla, coltivato in Puglia, dall’alto grado di proteine e un sapore unico. La loro pasta si gusta anche sul posto, nella Maccheroneria a fianco del pastificio, dove Maria Sorrentino cucina specialità come il richiestissimo tubettone con crema di patate, mantecato con pancetta e Provolone del monaco. Oppure i fusilli con crema di ricotta e pomodoro San Marzano, che, insuperabili, giustificano il viaggio a Gragnano. Senza perder l’occasione di rifornirsi alla Bottega della Pasta,
sempre lì, delle specialità di Gentile, dai vari formati alle Conserve San Nicola dei Miri, preparate della signora Sorrentino. A Cercola, cittadina industriale alle porte di Napoli, un’altra realtà artigianale merita di essere conosciuta meglio, il pastificio Leonessa.
Impianti moderni, ma procedimenti tradizionali, danno vita a paste fresche e secche di prima qualità, tutte trafilate in bronzo. “Ma il nostro ingrediente principe è il tempo”, spiega Oscar Leonessa, titolare insieme ai fratelli Luigi e Diego. “Le nostre paste hanno tempi di essiccamento lenti, anche due giorni per alcuni formati. Solo così si mantiene un giusto equilibrio tra la dolcezza dell’amido e l’acidità acquisita nelle microfermentazioni”. Tradizione, genuinità e ricerca sono i principi cardine
su cui lavorano. La loro pasta Fibrella, ricca di fibre e con il sapore della tradizione napoletana, risultato finale di un progetto di ricerca condotto con il Dipartimento di Scienza degli Alimenti dell’Università Federico II di Napoli, è stata selezionata per rappresentare l’Italia all’Expo Shanghai 2010. Onorificenze a parte, vale la pena assaggiare questa pasta che si esprime in 106 formati. L’artigianalità si vede, si sente e si tocca: il colore è giallo paglierino come la semola, al naso si avverte il profumo di grano e al tatto la trama è ruvida. La linea più pregiata è la Fior di Grano, prodotta con cereale campano al 100 per cento.
Andando più a Sud, bisogna arrivare quasi al tacco d’Italia, a Maglie, nel Leccese, per trovare quella pasta che Wine Spectator, la bibbia del vino in Usa, ha definito alcuni anni fa “la migliore del mondo”. Qui, dal 1918 la famiglia Cavalieri la produce con il grano duro “fino selezionato” delle colline di Puglia. Il pastificio è oggi guidato da Benedetto Cavalieri (nipote omonimo del fondatore) e dal figlio Andrea. Da più di novant’anni la tradizione di famiglia continua rinnovando il medesimo processo originale di lavorazione: “Si chiama metodo delicato”, precisa Cavalieri, “perché prevede una prolungata impastatura a freddo, una lenta gramolatura, pressatura e trafilatura al bronzo e infine un’essiccazione a bassa temperatura che va dalle 24 alle 44 ore”. Così consente di preservare intatti i valori biologici e nutritivi del grano, i carboidrati e le proteine vegetali. E assicura un sapore inconfondibile. Per ogni formato (se ne contano 26) vengono utilizzate miscele diverse di grano, selezionato, solo del Salento. Pasta autoctona e antica. Conosciuta e apprezzata nel mondo, premiata a New York al Fancy Food Show (importante fiera agroalimentare), scelta da grandi chef. Come il pluristellato Massimiliano Alajmo de Le Calandre (di Rubano, Padova), che le ha dedicato più di una ricetta; o come lo spagnolo Ferran Adrià, che la studia per nuovi piatti destrutturati. Orgoglio italico, insomma. Da gustare anche in maniera più tradizionale, con le verdure degli orti pugliesi, le cime di rapa o la cicoria. “O semplicemente con olio extravergine, limone grattugiato, Parmigiano e pepe bianco”, suggerisce Benedetto Cavalieri. La sua pasta si compra allo spaccio aziendale e nelle migliori gastronomie italiane. Il formato cult sono le ruote pazze, quelle che Ferzan Özpetek cita come inimitabili in un passaggio del suo ultimo film Mine vaganti. Pazze perché “sgangherate”, ovvero irregolari nella forma che ricorda il bel sole pugliese, da condire con pesto di menta, se si segue la tradizione.
Ogni formato ha la sua ricetta di semole e i suoi segreti di lavorazione. Gli spaghettoni, nella duplice versione, lunghi e tagliati, richiedono per esempio anche 44 ore di essiccazione e ben 16 minuti di cottura. Per le lumache occorre una maggiore quantità di glutine per poter curvare l’impasto senza danno. Piccoli accorgimenti che fanno la differenza. Come la confezione, di cartone blu e a forma di anfora, disegnata dalla signora Claudia Cavalieri. È invece il colore giallo a contraddistinguere le pareti esterne della piccola fabbrica e le confezioni Martelli, famiglia di pastai che quest’anno si è aggiudicata il premio di “Miglior pastificio artigianale per la valorizzazione del prodotto italiano”.
I pacchi – rigorosamente da un chilo – vengono confezionati manualmente. “Il giallo riprende la tradizione toscana”, sottolinea Dino Martelli, “perché la pasta un tempo si avvolgeva nella carta paglierina. La nostra gode di circa 50 ore di essiccazione. Abbiamo una mentalità operaia toscana, nel pastificio lavorano soltanto persone di famiglia, sette o otto in tutto. La tradizione è rappresentata anche nei formati, ne facciamo solo quattro”. Il martedì e il venerdì spaghetti e spaghettini con la curva – perché l’archetto dimostra che vengono messi a mano sui bastoni per essiccarli – perfetti per il pesce, e chi vuole può assistere al piccolo ciclo di produzione. Gli altri giorni si fanno le penne lisce classiche – sono tra i pochi a non fare quelle rigate, che a loro dire sono un’invenzione industriale – ma non certo scivolose, perché l’impasto, effettuato lentamente e con acqua fredda, non è compresso, e ciò le rende più porose, perfette per assorbire i condimenti. Il quarto formato è quello dei maccheroni Toscana, piccoli e con una rigatura elicoidale, straordinari con la salsa di cinghiale. E se il piccolo stabilimento è di fronte al castello di Lari, a pochi chilometri da Pisa, per acquistare si va al bar del paese che vende la pasta a 3,30 euro al chilo, quasi un euro in meno dei negozi in città. Ma, nonostante il successo, i loro numeri rimangono ancora oggi quelli di un’azienda artigianale: 3000 quintali l’anno di pasta, ovvero la quantità che un’azienda industriale produce in poche ore. “Le trafile con una lega di bronzo resistono bene alla compressione e all’essiccamento statico della pasta”, dice Mario, il fratello di Dino, “la fanno davvero buona ed è per questo che molti cuochi la scelgono”. A pochi passi dal pastificio, all’Antica Osteria del Castello, la Martelli la fa un po’ da padrone nel menu: da provare, tra tavoli design e pareti con mattoni a vista, i maccheroncini Toscana con ragù bianco all’alloro e tartufo nero, e gli spaghetti al pesto di timo e acciughe e pomodorini al forno, preparati da Franca Pantani. A Roseto degli Abruzzi, nei primi del Novecento, la famiglia Verrigni d’estate asciugava la pasta in strada e al sole, mentre d’inverno accendeva i fuochi in cantina per farla essiccare sulle canne di bambù. Ma già dagli anni Sessanta la produzione si è spostata nella zona industriale dove la pasta è il risultato di una lenta essiccazione dinamica, visto che tutte le canne o i vassoi dove è poggiata sono trasportati su tappeti in continuo movimento. “L’essiccazione dipende dal formato”, afferma Francesca Petrei Verrigni, che con il marito Gaetano è alla guida dell’azienda. “Il nostro superspaghettone, per esempio, ha bisogno di 48 ore”. Massimiliano Alajmo, chef di rango, usa la loro pasta, che considera particolarmente croccante, e così pure altri cuochi di fama come Niko Romito, Massimo Bottura e Mauro Uliassi, fan dello spaghetto e del fusilloro, realizzati addirittura con una trafila del prezioso metallo, fabbricata apposta da un orafo. Nicola Cavallaro, nel suo omonimo ristorante di Milano, propone con successo gli spaghettoro ai 4 pomodori, conditi cioè con datterino confit, salsa di perini, pomodori verdi e piccadilly appassito. Targate Verrigni si trovano anche altre specialità come la pasta biologica e la pasta kamut, che Moreno Cedroni usa come dessert, tant’è che ha ideato la pacchertorte, scherzando sulla paludata Sachertorte, con i paccheri riempiti di mousse dolci. Ma non è tutto. “A Londra, lo scorso anno”, aggiunge Francesca Verrigni, “Bottura ha presentato le conchiglie di kamut riempite di selvaggina e le ha usate come finger food, a dimostrare la versatilità della pasta”. È invece un pastificio in mezzo a un campo di grano quello dei Mancini, famiglia giunta alla terza generazione nella conduzione di un’azienda agricola, a Monte San Pietrangeli, nelle Marche.
Dal 2001 Massimo Mancini, agronomo quarantaduenne, ha deciso di fare la pasta col proprio grano, un po’ come ci si fa il vino con le uve del proprio vigneto. Sul pacchetto di pasta targato Mancini, infatti, c’è scritto l’anno del raccolto e la data di confezionamento. I “vitigni” del loro grano duro sono il Levante e il San Carlo, dai quali si ottiene una pasta corta che asciuga lentamente, a bassa temperatura, mentre spaghetti & co. sono appesi a canne in acciaio. “Siamo alla terza generazione”, confida Massimo Mancini, “c’è ancora il nonno Mariano, del 1908, poi mio padre Giuseppe, del 1938 e io del 1968. È venuto naturale scegliere di produrre otto formati. L’obiettivo è arrivare in due anni a coltivare 250 ettari dagli attuali 140, dotarci di un punto vendita aziendale”. Il grano duro per la produzione è quello delle loro terre anche per la pasta Latini, nata nel 1990 da una costola dell’azienda agricola di famiglia. A guidarla oggi Carlo e Carla Latini, uniti dalla passione per il buon cibo, che hanno applicato i criteri classici dei pastifici di una volta: trafila in bronzo, essiccazione lenta a bassa temperatura, qualità del grano duro. È proprio la varietà di grano Senatore Cappelli ad averli resi famosi, il top della loro produzione nei formati come spaghetti, trenette, chitarra, fino a rigatoni e schiaffoni.
Nicola Cavallaro, nel suo ristorante sui Navigli di Milano, valorizza gli spaghetti Senatore Cappelli in un piatto apparentemente semplice: aglio, olio e peperoncino (vedi ricetta a fianco). Ma c’è anche il grano Taganrog, una selezione di origine russa, con la quale si ottengono spaghetti e penne più resistenti alla cottura. Ma ci sono anche le linee di pasta all’uovo o al farro. “Con piacere, su prenotazione, facciamo visitare i nostri campi di grano”, dice Carla Latini, che si occupa col marito dell’azienda, e anche se non c’è uno spaccio si può acquistare on line sul nuovo sito www.eaifood.com, dove tra le eccellenze alimentari italiane c’è anche la loro pasta. Il cav. Giuseppe Cocco, proprietario dell’azienda omonima insieme ai figli Domenico e Lorenzo, la pasta alla vecchia maniera ha cominciato a farla nel 1989, da pensionato, comprando vecchi macchinari. Li ha rimessi in funzione insieme ai figli, soprattutto insieme a Domenico, l’ingegnere diabolico, come viene soprannominato in famiglia, che ripara le macchine per la pasta degli anni Cinquanta. Producono al massimo un quintale l’ora, mentre l’industria nel medesimo tempo ne produce un fiume, 80 quintali. “Non facciamo formati strani”, afferma Lorenzo Cocco, “l’unico vezzo è la pasta allo zafferano di Navelli, dove i pistilli vengono messi interi. Ma sono buone anche le tagliatelle e le farfalle all’uovo, tutto prodotto nello stabilimento di Fara San Martino”. Insomma, mentre l’industria sottopone la pasta a una maturazione violenta, qui si seguono i ritmi della natura e si producono 120 formati da acquistare anche on line. Nel centro più popoloso della trentina Val di Fiemme, Predazzo (in realtà solo 4500 abitanti) c’è il pastificio artigianale più settentrionale d’Italia, Felicetti. E non è un’avventura recente, visto che è stato creato 102 anni fa. Produce circa 60 tonnellate di pasta al giorno (i numeri dei pastifici industriali sono da 10 a 30 volte più elevati), ma il processo di produzione, come sottolinea Riccardo Felicetti, il direttore commerciale, non cambia poi molto. E allora dove sta la qualità superiore? Cambia l’arte, è la sua risposta. È l’esperienza del capo pastaio, la sua perizia, a essere decisiva: sceglie di farne un certo tipo con certe varietà di cereale, con certe miscele, con tempi adeguati. Usano anche le trafile in teflon, ma solo per alcuni esercizi commerciali che le richiedono per preparare la pasta in doppia cottura; per i prodotti di punta, i formati Monograno (di kamut, di farro e di grano duro, tutto biologico), almeno il 50 per cento della produzione, solo materie prime selezionatissime, trafile in bronzo e lente essiccazioni. Il primo riconoscimento della qualità di Felicetti viene del resto da una serie di grandi chef che la utilizzano. Massimo Riccioli de La Rosetta di Roma (via della Rosetta 8, tel. 06.68.61.002) da anni apprezza in particolare lo spaghetto al farro. Con una base di aglio, olio e peperoncino, lavorata in maniera particolare, fa eccellenti sughi di pesce con cui irrora gli spaghetti. Tradizione e professionalità. Professionalità e innovazione, invece, da parte di Davide Scabin, titolare del 2 stelle Michelin Combal.zero di Rivoli (Torino), che nel giugno scorso ha presentato all’edizione londinese di Identità golose ricette apparentemente stravaganti. Le paste Monograno sono state reinterpretate in combinazioni di piatti mignon: si andava dai tre sushi di conchiglioni alla Check Salad, cinque assaggi di paste diverse con cinque condimenti classici della cucina italiana (pomodoro, burro e salvia, carbonara…). Ma i condimenti erano rivoluzionati. La salsa di pomodoro era in realtà un olio essenziale derivato da un confit di pomodoro e la carbonara inserita nelle chiocciole, un infuso di tuorlo d’uovo ed essenza di guanciale. E il soufflé di maccheroni con ragù ai tre pomodori e salsa di Grana Padano, che è stato appena reinserito nel menu autunnale, è ottenuto gonfiando la pasta scotta e affiancando poi il sugo. Più tradizionale, ma sempre d’autore, il piatto creato in un altro ristorante neostellato, la Glass Hostaria di Roma. La chef e patronne Cristina Bowermann ha aperto a Trastevere un locale insolito per la zona, che evoca la tradizione e la ricrea. In carta propone, fra gli altri primi, gli spaghetti di Felicetti affumicati, con friggitelli (i lunghi peperoncini), peperone e caglio di latte di capra. In realtà a essere affumicato su legno di ciliegio è proprio quest’ultimo. Dei peperoni si fa una salsa, i friggitelli sono saltati in padella, poi vi è pane fritto e sminuzzato. La pasta viene lessata e saltata in padella con olio, aglio, latte affumicato e i friggitelli, quindi il tutto viene adagiato nei piatti sul sugo di peperoni, finendo con bottarga e pane fritto. Un piccolo capolavoro.
Inviati da Dove, Annalisa Tirrito, Donatella Bernabò Silorata,
Loredana Tartaglia e Gian Luca Moncalvi